Il Capitolo
I simboli del rituale
Quando nel corso della cerimonia di elevazione al compagno appena elevato nell’arco reale viene tolta la benda, le prime immagin che si trova davanti, sono i numerosi e variegati oggetti presenti: il tappeto del capitolo, gli stendardi, i quadri, le luci, l’altare sembrano la rappresentazione del mondo intero.
Durante la cerimonia di elevazione, gli viene detto che l’arco é il completamento del terzo grado, ma solo con lo studio approfondito potrà afferrare la reale portata di questa affermazione. L’arco reale, infatti, é l’ottava superiore della massoneria azzurra e rappresenta per così dire il completamento del cerchio.
Infatti, se nella massoneria azzurra passiamo simbolicamente attraverso il corpo di Hiram defunto, nell’Arco ritroviamo la cripta e i segreti nascosti. L’emblema principale la tonalità dominante che noi incontriamo é la “caverna” perché la cripta non é altro che una caverna, la nostra interiore caverna iniziatica. L’esperienza principale che noi vogliamo comunicare, sia nella cerimonia che in tutti i discorsi e le letture che verranno fatte in seguito, é l’emozione esaltante dell’uscita dalla caverna, dopo aver trovato la pietra e il “nome ineffabile”. Non é casuale che l’ingresso dal novizio nel capitolo viene detta “esaltazione”.
Pitagora diceva che per conoscere la regione dei numeri bisogna andare oltre la regione della morte, intendendo per regione dei numeri l’essenza stessa della mente dell'”Altissimo”, del Grande Architetto. Ma noi nel terzo grado siamo già virtualmente morti ed il tappeto, col suo effetto ottico in discesa, ci ricorda che stiamo entrando in una cripta.
Esisteva nel gabinetto di riflessione, prima dell’iniziazione, inesistente nella stesura attuale del rituale “Emulation”, una scritta: V.I.T.R.I.O.L. che é l’acronimo di: VISITA INTERIORA TERRAE RECTIFICANDO INVENIES OCCULTUM LAPIDEM – Esplora l’interno della terra (o la terra interiore) e rettificando, scoprirai la pietra nascosta.
Questo é ancora più valido nell’arco, anche perché noi come “Soggiornanti” la pietra la troviamo. Socrate avrebbe detto: “conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dei”.
La terra da sempre rappresenta l’origine di tutta la vita e di tutte le cose, é alla terra che tutte le vite ritornano, e dopo aver subito la putrefazione, la vita rinasce.
La terra é, dunque, simbolo di rigenerazione. È anche il simbolo del mondo sotterraneo, ctonio, con i suoi meandri e i suoi segreti, ma é un universo oscuro.
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Il simbolo della caverna rappresenta il centro del nostro vero essere, é un luogo di calma e riflessione che serve ad edificare il nostro tempio interiore, é un luogo divino di difficile accesso e invariabilmente oscuro.
Per viverlo con consapevolezza però, é necessario discendere senza esitazioni nel profondo della propria interiorità, per scoprire un altro mondo dove l’amor proprio si dissolve e si può percepire una emozione incomparabilmente profonda e infinita. Davanti a questo mondo interiore, il mondo materiale perde la sua consistenza e si comincia a vederlo con tutt’altro sguardo. La nostra vita allora si illumina e cambia aspetto, i nostri pensieri e dispiaceri si attenuano. Ci rendiamo conto che questo può sembrare un linguaggio misterioso, ma stiamo esplorando un paradiso spirituale che ognuno di noi porta dentro di sé. E’ sufficiente desiderare e lavorare per scoprirlo, anche se ciò sarà fonte di probabile smarrimento. Penso che l’oscurità della caverna sia essenziale per il buon sviluppo del nostro lavoro di perfezionamento.
Dobbiamo estrarre questa nostra pietra bruta dall’abbraccio della terra al fine di uscire da questa e scoprire la luce celeste per poter illuminare tutti i fratelli.
Il senso vero dell’entrare nella caverna é “l’uscirne” dopo aver trovato ciò che stavamo cercando. Il senso vero dell’entrare nella caverna é “l’uscirne” dopo aver trovato ciò che stavamo cercando.
Prendiamo in considerazione gli altri oggetti nel capitolo, e iniziamo un percorso concentrico come una immaginaria spirale che ci porti verso il centro verso l’altare.
Cominciamo dalla regione più esterna: davanti a noi fanno mostra di sè quattro stendardi con un uomo, un bue, un leone e un’aquila, rappresentano i quattro elementi, i quattro punti cardinali, la croce formata da equinozi e solstizi.
Al centro il triangolo con la triplice tau.
L’origine del simbolo in realtà, é data da una T sopra una H che può indicare “Templum Hierosolimi” il tempio di Gerusalemme.
Tutto intorno al perimetro del tappeto ci sono i dodici stendardi, delle dodici tribù di Israele che sono poi i figli di Giacobbe.
Ognuno ebbe una parte del territorio di Israele. C’é da notare una piccola irregolarità nell’elenco riportato dalla Bibbia e quindi nei nostri rituali: non viene riportato Giuseppe ma vengono citati i suoi due figli, Efraim e Manasse quindi, per far quadrare il conto, venne tolto Levi (che noi per tradizione abbiniamo negli stendardi a Simeone ma nella realtà non ebbe, come tribù, alcun territorio ma fu collocata virtualmente nella regione desertica al centro della terra di Canaan), perchè incaricata del servizio del tempio.
Nel 1599 fu pubblicata a Londra la Bibbia di Barker. Nel frontespizio c’era una interessante novità essa recava: sul lato sinistro gli stendardi delle dodici tribù e sul lato destro i dodici apostoli, segno del passaggio del testimone verso il cristianesimo.
Al centro i quattro evangelisti che avevano acquisito nel frattempo, i simboli dell’aquila del bue del leone e dell’uomo. Quando Gesù sceglie i dodici discepoli egli proclama apertamente la volontà di eleggere in nome di Dio un nuovo popolo (Matteo, 10,1). La sostituzione degli stendardi delle tribù con gli apostoli, ci segnala quanto fosse secondario il nome dei personaggi ma, che coloro che idearono il rituale dell’arco, intendessero rendere l’idea di totalità, perché il dodici é il numero della completezza e del tutto. Dodici é il numero delle divisioni spazio temporali é il prodotto dei quattro punti cardinali per i tre piani del mondo e divide il cielo, considerato una cupola. Rappresenta anche l’universo nella sua complessità interna e la moltiplicazione dei quattro elementi (aria acqua terra fuoco) per i tre principi alchemici (zolfo sale mercurio).
Innumerevoli sono le cose che si raggruppano in dodici: i mesi, le costellazioni dello zodiaco, i dodici apostoli, le dodici porte della Gerusalemme Celeste anche i cavalieri della tavola rotonda la nota saga celtica ecc.
Interessante é la corrispondenza dell’arco con i tarocchi: osserviamo attentamente la carta numero 21 che rappresenta il mondo; vediamo quattro figure ai lati, il solito leone, l’aquila, il bue, l’uomo.
Al centro una figura femminile che rappresenta l’anima mundi che corre o danza, questa corsa e questa danza generano il vortice che porta all’esistenza o alla distruzione gli esseri e i mondi.
Solitamente viene raffigurata con due candele in mano rigorosamente rosse segno del completamento dell’ “opera”. Intorno un cerchio che nelle versioni diverse rappresentano un serpente che si morde la coda (l’Uroboros simbolo dell’infinito), una corona di foglie d’alloro intrecciata con o senza quattro rose agli angoli (simbolo del divino e dell’amore disinteressato) oppure, in altre versioni, una specie di collana composta da dodici perle o medaglioni che, alternativamente, raffigurano segni zodiacali o quant’altro, oppure, in qualche altra versione semplicemente un cerchio, simbolo dell’infinito ma anche alchimisticamente dell’allume, il sale che genera tutti gli altri sali. Tutto questo rappresenta la medesima cosa, la totalità.
Andando avanti troviamo cinque oggetti solidi, questi sono i solidi platonici così chiamati perché usati nel Timeo di Platone per spiegare la struttura dell’universo. Platone usa ll tetraedro per simboleggiare il fuoco, ottaedro per simboleggiare l’aria, il cubo per simboleggiare la terra, l’icosaedro per simboleggiare l’acqua e il dodecaedro per simboleggiare la quintessenza, il quinto elemento, lo spirito universale, l’infinito, l’universo. Ricordiamo che il dodecaedro, come dice il nome, ha dodici facce.
Continuiamo il nostro percorso che notiamo essere concentrico e possiamo vedere una squadra ed un compasso che simboleggiano il lavoro percorso nei primi tre gradi, poi una spada e una cazzuola che ci ricordano che coloro che ricostruivano il tempio, dovevano essere sempre pronti a prendere la spada per difendersi dagli attacchi esterni dei nemici.
La spada é anche un simbolo più elevato. L’Apocalisse profetizza di una spada che esce dalla bocca del “Verbo”, la spada é simbolo della guerra santa che é prima di tutto una guerra interiore é questo forse il significato della spada portata dal Cristo nel vangelo secondo Matteo (10,34) ma é anche simbolo di conoscenza pura come testimonia il “Vedanta”.
La cazzuola é un simbolo trinitario, ma anche un simbolo del fulmine per la sua forma e simbolo di forza creatrice tanto che, nel medioevo, il creatore era raffigurato con la cazzuola in mano. La cazzuola servendo a mescolare la calce, simbolicamente riunisce fonde e unifica. Alchimisticamente l’abbinamento dei due oggetti allude al solve e coagula. Altro oggetto é la corda dei soggiornanti: questa é la trasposizione della scala presente nella tavola del primo grado e si ricollega alla simbologia dell’ascensione; essa serve per scendere nella cripta ma soprattutto per salire, essa é la via sacra insita nella coscienza dell’uomo, che collega il suo spirito all’essenza divina.
Sul tappeto troviamo ora due libri della legge sacra uno chiuso e l’altro aperto:
simbolicamente il libro ora chiuso ora aperto rappresenta la “pietra” a seconda che sia stata lavorata o ancora grezza appena estratta dalla cava.
In alchimia il libro rappresenta sia l’opera che la materia prima, frequentemente viene raffigurato fasciato da sette sigilli che rappresentano le sette fasi dell’opera che permettono di aprirlo man mano che si procede.
Al centro un altare, intorno all’altare noi troviamo i sei candelabri, in posizione di due triangoli disposti in forma concentrica; dal rituale sappiamo che quelle con il vertice verso l’alto sono le luci maggiori, le altre cioè il triangolo rivolto in basso é quello delle luci minori.
Le tre luci minori sono chiamate “la luce della legge e dei profeti” ognuna é indicata come se ciascuna luce avesse nome proprio. Rappresenta la conoscenza e comprensione della ‘Legge’ e dei ‘Profeti’.
Il simbolismo delle luci minori ha come partenza la Legge cioè i primi cinque Libri della Bibbia, la “Torah”, o Pentateuco, e come profeti Isaia, Geremia, Ezechiele. Il simbolo indica più ampiamente lo sviluppo armonico della creazione divina nel divenire, lo scorrere della sua volontà creativa a cui, uniformandosi e cooperando, induciamo uno sviluppo armonico del nostro essere ed il progresso mistico spirituale.
In questo c’é il vero significato della parola “Ascesi” che letteralmente significa salire che é come salire su una montagna in cui però l’ascensione é di natura spirituale é fa parte della conoscenza di se, e ciò che accade sulla montagna conduce alla conoscenza di Dio.
Le tre Luci maggiori, circoscrivono la Parola Sacra sull’altare, e vengono indicate con tre lettere dell’alfabeto ebraico che sono: Alef, Bet, lamed (la prima, la seconda e la dodicesima).
Molti autori indicano questo come riferimento alle parole del Salmo 119, verso 18, che dice: — Aprimi gli occhi perché io veda le meraviglie della tua legge — .
L’altare con le sue luci é il nocciolo del capitolo, esso é di pietra bianca perché simbolo di perfezione, ed é il simbolo del tempio che l’adepto doveva edificare per compiere l’opera, come ci raccontano Zosimo e Democrito che sono i maggiori rappresentanti dell’alchimia greco-alessandrina del primo e secondo secolo d.C.
L’altare é formato da un doppio cubo sovrapposto, che come ci ricorda Guénon riportava alla forma del tempio massonico, perché la Loggia propriamente detta è un quadrato lungo, in realtà un doppio quadrato, essendo la lunghezza (da oriente a occidente) doppia della larghezza (da nord a mezzogiorno).
I due triangoli il piccolo con il vertice in basso inscritto nel grande con il vertice in alto, ci riportano nuovamente al simbolismo della caverna che é anche accesso al monte degli adepti, da cui si accede all’asse del mondo, e al suo vertice.
Come nel paradiso di Dante, entriamo negli inferi e, alla fine del percorso, prima in discesa e poi in salita ci troviamo in paradiso al cospetto dell’Altissimo. Ma anche Enea, grazie alla Sibilla Cumana, entra nell’Ade e conclude il suo viaggio nei campi elisi.
Le luci delle candele sono la raffigurazione tridimensionale della stella fiammeggiante a sei punte. Il simbolo della stella di Davide fiammeggiante si presenta come un gradino successivo a quello del terzo grado. Siamo passati attraverso la porta della stella a cinque punte nel terzo grado e dobbiamo passare attraverso la porta dell’esalfa tridimensionale fiammeggiante nell’Arco Reale, oltre di ciò c’é solo il Grande Architetto.
In conclusione vogliamo per chiudere il cerchio, citare le prime parole della “Genesi”: << Bereshit barà Elohim et hashamajim wet aares>>.
La traduzione letterale è : << In principio (bereshit) creò (barà) Iddio (Elohim) i cieli (et hashamajim) e la terra (wet aares) >>.
Ora notiamo che “Elohim” corrisponderebbe al singolare “Dio” ma é in realtà un plurale, il plurale di Elohè o semplicemente El e andrebbe tradotto con “Gli Dei”. dando quindi alla frase un soggetto sottinteso come fattore del tutto anche di Elohim. Questa immagine ci conduce al concetto di molteplice. Nel livello superiore di comprensione del capitolo non basta più un venerabile come vicario divino ma il peso del simbolo viene portato da una trinità umana.
Il Concilio
solidi platonici sono così chiamati perché descritti nel Timeo di Platone come le forme che simboleggiano i quattro elementi, che sono, secondo la tradizione antica, gli archetipi da cui origina tutto l’universo. Ogni materia è composta di parti variabili dei quattro elementi base, il quinto, la quintessenza, non viene descritta, ma solo accennata. Il dodecaedro che la rappresentava era segreto e chi ne parlava incautamente veniva severamente punito. Inoltre, sempre secondo Platone, l’intero universo aveva la forma di un dodecaedro.
Cubo-di-MetatronPer comprendere l’importanza agli occhi dei pitagorici e di Platone, di queste forme geometriche occorre ricordare: che per essi l’atomo (ossia la parte ultima indivisibile) non era come noi lo immaginiamo di forma pressappoco sferica, ma di forma triangolare come un piccolo tetraedro. Il triangolo è sul piano la superficie minima perché è il poligono avente il minimo numero di lati necessario e sufficiente a delimitare una porzione di piano, il tetraedro o piramide triangolare è l’atomo solido perché è il poliedro avente il minimo numero di facce necessario e sufficiente a delimitare una porzione di spazio.
Per definizione, ogni numero poligonale è sempre la somma, di triangoli e ogni numero piramidale è somma di numeri tetraedrici. Per cui si è constatato che anche le cinque figure cosmiche ed in particolare il dodecaedro, simbolo dell’universo erano composti di tetraedri. L’intero universo si riduceva quindi ad una somma di atomi tetraedrici.
La fisica moderna sta dando ragione a Pitagora perché dopo aver frazionato l’atomo “scientista” ed aver visto che in realtà, neutroni e protoni erano fatti di particelle più piccole: Quark, Gluoni, ed altro, ha poi verificato che questi sono composti da corpuscoli ancora più minuscoli, tutt’altro che sferici e fatti come stringhe di energia che si scambiano cariche su schemi geometrici, come fossero cristalli.
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La cosa è confermata da quanto dicono Alcinoo e Plutarco. Il primo, dopo avere spiegato la natura dei primi quattro poliedri, dice che il quinto ha dodici facce, come lo zodiaco ha dodici segni, ed aggiunge che ogni faccia è composta di cinque triangoli (Col centro della faccia per vertice comune) di cui ciascuno è composto di altri sei (determinati da un diametro e da due lati del pentalfa). In totale 360 triangoli.
Plutarco a sua volta, dopo avere constatato che ognuna delle dodici facce pentagonali del dodecaedro consta di trenta triangoli rettangoli scaleni aggiunge che questo indica che il dodecaedro rappresenta tanto lo zodiaco che l’anno, perché si suddivide nel medesimo numero di parti.
Plutarco allude manifestamente all’anno egizio composto di 12 mesi ciascuno di trenta giorni, e che contava anche cinque giorni detti epagomeni che erano giorni di passaggio e che non erano considerati parte dell’anno, giorni in cui era vietato di compiere qualsiasi attività ed era vietato officiare riti religiosi.
Il numero dodici è il numero delle facce del dodecaedro e conseguentemente è il numero dei vertici del poliedro polare ossia dell’icosaedro. Dodici è anche il numero degli spigoli del cubo e del suo poliedro polare ossia l’ottaedro. Se consideriamo il numero dodici come costituito dai dodici vertici di un dodecaedro e ne sviluppiamo questo numero dodecaedrico entro uno degli angoli, prendendone il vertice come centro di omotetia si ottengono nel solito modo pitagorico i successivi numeri dodecaedrici. Le formule dei numeri poliedrici regolari (ad eccezione del numero tetraedrico) sono state, determinate la prima volta da Cartesio e si trovano in un suo manoscritto rimasto inedito per oltre un secolo.
Il numero dodici per conto suo ha già tradizionalmente un Carattere sacro ed universale, oltre ad essere il numero dei mesi del l’anno e dei segni dello zodiaco, dodici era in Grecia, Etruria e Roma il numero dei partecipanti al consesso degli Dei. Dodici il numero dei componenti dei collegi sacerdotali nella Roma arcaica, dodici il numero delle verghe del fascio etrusco e romano. Inoltre molti dodecaedri celtici pervenutici attestano l’importanza che gli antichi annettevano a questo numero ed al dodecaedro. Fatti e ragioni che avvalorano la scelta del dodecaedro come simbolo dell’universo.
Il dodecaedro è inscritto nella sfera, così come nella cosmologia pitagorica, il cosmo è avvolto dalla fascia, il “Perièkon”. Come il cosmo contiene in sè e consta dei quattro elementi fuoco, aria, terra, acqua, così i quattro poliedri regolari che ne sono il simbolo si possono inscrivere entro il dodecaedro. Si può infatti mostrare come si possa inscrivere l’esaedro o cubo nella sfera e nel dodecaedro; si può mostrare facilmente come l’icosaedro avente per vertici i centri delle dodici facce del dodecaedro sia un icosaedro regolare inscritto; ed analogamente per l’ottaedro avente per vertici i centri delle sei facce di un cubo, ed in fine come si ottenga dal cubo un tetraedro.
La Commenda
Nel terzo grado della tradizione muratoria viene vissuto il dramma della irrimediabile perdita dei segreti connessi alla costruzione sacra. Segreti che sono da una parte costruttivi ma dall’altra sono iniziatici e interiori.
Nel grado dell’Arco Reale di Gerusalemme tutto gira intorno al concetto del ritrovamento di quei segreti, di quella iniziazione o quelle iniziazioni perdute.
Il mito della parola perduta nasce dalla tradizione rosacruciana, secondo cui ogni maestro rosacroce doveva scegliere un discepolo da istruire, a cui in punto di morte doveva sillabare all’orecchio le istruzioni conclusive della “Grande Opera”. Cosa avrebbe potuto sillabare all’orecchio del discepolo un anziano maestro in punto di morte non lo sappiamo, ma nel rispetto di questa tradizione ancora oggi gli apprendisti in primo grado ricevono e danno comunicazioni sillabando all’orecchio.
Nella elaborazione del grado, per creare una struttura allegorica in grado di trasmettere l’insegnamento iniziatico tra le pieghe di un rituale, gli antichi estensori si sono serviti di una tradizione molto diffusa nelle culture antiche, quello del ritrovamento della cripta, all’interno della quale si trova il segreto perduto.
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profeta e che vengono considerate un prototipo della tradizione Muratoria e dell’Arco Reale. Si racconta che in una visione, l’Altissimo abbia mostrato a Enoch nove soffitti a volta. Con l’aiuto di suo figlio Matusalemme, Enoch si é dedicato ad erigere, nel cuore della montagna di Caana, un santuario segreto di cui aveva veduto il progetto, con le volte una al di sotto dell’altra. Nella nona, la più bassa, Enoch collocò un triangolo di oro puro, sul quale aveva inciso ciò che presumibilmente era il cuore, l’essenza e il centro della Tradizione Sacra, il Vero Nome di Dio. Enoch era il nonno di Noé e aveva
fatto quest’opera perché aveva avuto una visione dove la terra sarebbe stata spazzata via da un grande cataclisma.
La versione cristiana è scritta in greco risale al quarto secolo. La scrive Filostorgio, storico cristiano seguace di Ario nella sua “Storia Ecclesiastica”:
“Quando Giuliano l’Apostata, ordinò di ricostruire la città di Gerusalemme, durante la preparazione delle fondamenta, una delle pietre che era stata posta nella parte più bassa della base uscì improvvisamente dal suo posto e aprì l’entrata di una caverna scavata nella roccia. A causa della profondità era difficile vedere cosa vi fosse dentro questa caverna; così alcuni essendo ansiosi di scoprire la verità calarono giù con una fune uno dei loro operai. Questi una volta sceso trovò acqua stagnante fino all’altezza delle ginocchia e constatò che la grotta era un quadrato perfetto. al centro una colonna e su di essa vi era un libro avvolto in un telo di lino. Lo prese e fece un segnale ai suoi compagni perché lo tirassero sù. Tornato alla luce mostrò loro il trofeo ed essi rimasero molto sorpresi, perché aveva un buon aspetto ed era in perfetto stato di conservazione, nonostante il luogo dove era stato trovato. Questo libro, che appariva un potente prodigio sia agli occhi dei pagani che degli ebrei, appena aperto mostrò le seguenti parole, scritte a grandi lettere: All’inizio era il Verbo, il Verbo era con Dio, il Verbo era Dio”. Infatti il volume era il Vangelo di Giovanni.
Questi tre racconti hanno ognuno qualcosa del rituale dell’Arco Reale di Gerusalemme ma come sempre in massoneria l’insegnamento è velato di allegorie. Quello che viene indicato è l’inizio di un viaggio interiore, che come quello di Dante, ma prima di lui di Virgilio, ci porterà ad entrare nella nostra interiorità più profonda, a entrare negli inferi e ad arrivare alla fine al paradiso per ritrovare quello che si era perso e poter reintegrare e ricostruire il nostro essere con quelle parti che sono andate perdute.