L'Arco R. Gerusalemme
I simboli del rituale
Quando nel corso della cerimonia di elevazione al compagno appena elevato nell’arco reale viene tolta la benda, le prime immagin che si trova davanti, sono i numerosi e variegati oggetti presenti: il tappeto del capitolo, gli stendardi, i quadri, le luci, l’altare sembrano la rappresentazione del mondo intero.
Durante la cerimonia di elevazione, gli viene detto che l’arco é il completamento del terzo grado, ma solo con lo studio approfondito potrà afferrare la reale portata di questa affermazione. L’arco reale, infatti, é l’ottava superiore della massoneria azzurra e rappresenta per così dire il completamento del cerchio.
Infatti, se nella massoneria azzurra passiamo simbolicamente attraverso il corpo di Hiram defunto, nell’Arco ritroviamo la cripta e i segreti nascosti. L’emblema principale la tonalità dominante che noi incontriamo é la “caverna” perché la cripta non é altro che una caverna, la nostra interiore caverna iniziatica. L’esperienza principale che noi vogliamo comunicare, sia nella cerimonia che in tutti i discorsi e le letture che verranno fatte in seguito, é l’emozione esaltante dell’uscita dalla caverna, dopo aver trovato la pietra e il “nome ineffabile”. Non é casuale che l’ingresso dal novizio nel capitolo viene detta “esaltazione”.
Pitagora diceva che per conoscere la regione dei numeri bisogna andare oltre la regione della morte, intendendo per regione dei numeri l’essenza stessa della mente dell'”Altissimo”, del Grande Architetto. Ma noi nel terzo grado siamo già virtualmente morti ed il tappeto, col suo effetto ottico in discesa, ci ricorda che stiamo entrando in una cripta.
Esisteva nel gabinetto di riflessione, prima dell’iniziazione, inesistente nella stesura attuale del rituale “Emulation”, una scritta: V.I.T.R.I.O.L. che é l’acronimo di: VISITA INTERIORA TERRAE RECTIFICANDO INVENIES OCCULTUM LAPIDEM – Esplora l’interno della terra (o la terra interiore) e rettificando, scoprirai la pietra nascosta.
Questo é ancora più valido nell’arco, anche perché noi come “Soggiornanti” la pietra la troviamo. Socrate avrebbe detto: “conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dei”.
La terra da sempre rappresenta l’origine di tutta la vita e di tutte le cose, é alla terra che tutte le vite ritornano, e dopo aver subito la putrefazione, la vita rinasce.
La terra é, dunque, simbolo di rigenerazione. È anche il simbolo del mondo sotterraneo, ctonio, con i suoi meandri e i suoi segreti, ma é un universo oscuro.
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Il simbolo della caverna rappresenta il centro del nostro vero essere, é un luogo di calma e riflessione che serve ad edificare il nostro tempio interiore, é un luogo divino di difficile accesso e invariabilmente oscuro.
Per viverlo con consapevolezza però, é necessario discendere senza esitazioni nel profondo della propria interiorità, per scoprire un altro mondo dove l’amor proprio si dissolve e si può percepire una emozione incomparabilmente profonda e infinita. Davanti a questo mondo interiore, il mondo materiale perde la sua consistenza e si comincia a vederlo con tutt’altro sguardo. La nostra vita allora si illumina e cambia aspetto, i nostri pensieri e dispiaceri si attenuano. Ci rendiamo conto che questo può sembrare un linguaggio misterioso, ma stiamo esplorando un paradiso spirituale che ognuno di noi porta dentro di sé. E’ sufficiente desiderare e lavorare per scoprirlo, anche se ciò sarà fonte di probabile smarrimento. Penso che l’oscurità della caverna sia essenziale per il buon sviluppo del nostro lavoro di perfezionamento.
Dobbiamo estrarre questa nostra pietra bruta dall’abbraccio della terra al fine di uscire da questa e scoprire la luce celeste per poter illuminare tutti i fratelli.
Il senso vero dell’entrare nella caverna é “l’uscirne” dopo aver trovato ciò che stavamo cercando. Il senso vero dell’entrare nella caverna é “l’uscirne” dopo aver trovato ciò che stavamo cercando.
Prendiamo in considerazione gli altri oggetti nel capitolo, e iniziamo un percorso concentrico come una immaginaria spirale che ci porti verso il centro verso l’altare.
Cominciamo dalla regione più esterna: davanti a noi fanno mostra di sè quattro stendardi con un uomo, un bue, un leone e un’aquila, rappresentano i quattro elementi, i quattro punti cardinali, la croce formata da equinozi e solstizi.
Al centro il triangolo con la triplice tau.
L’origine del simbolo in realtà, é data da una T sopra una H che può indicare “Templum Hierosolimi” il tempio di Gerusalemme.
Tutto intorno al perimetro del tappeto ci sono i dodici stendardi, delle dodici tribù di Israele che sono poi i figli di Giacobbe.
Ognuno ebbe una parte del territorio di Israele. C’é da notare una piccola irregolarità nell’elenco riportato dalla Bibbia e quindi nei nostri rituali: non viene riportato Giuseppe ma vengono citati i suoi due figli, Efraim e Manasse quindi, per far quadrare il conto, venne tolto Levi (che noi per tradizione abbiniamo negli stendardi a Simeone ma nella realtà non ebbe, come tribù, alcun territorio ma fu collocata virtualmente nella regione desertica al centro della terra di Canaan), perchè incaricata del servizio del tempio.
Nel 1599 fu pubblicata a Londra la Bibbia di Barker. Nel frontespizio c’era una interessante novità essa recava: sul lato sinistro gli stendardi delle dodici tribù e sul lato destro i dodici apostoli, segno del passaggio del testimone verso il cristianesimo.
Al centro i quattro evangelisti che avevano acquisito nel frattempo, i simboli dell’aquila del bue del leone e dell’uomo. Quando Gesù sceglie i dodici discepoli egli proclama apertamente la volontà di eleggere in nome di Dio un nuovo popolo (Matteo, 10,1). La sostituzione degli stendardi delle tribù con gli apostoli, ci segnala quanto fosse secondario il nome dei personaggi ma, che coloro che idearono il rituale dell’arco, intendessero rendere l’idea di totalità, perché il dodici é il numero della completezza e del tutto. Dodici é il numero delle divisioni spazio temporali é il prodotto dei quattro punti cardinali per i tre piani del mondo e divide il cielo, considerato una cupola. Rappresenta anche l’universo nella sua complessità interna e la moltiplicazione dei quattro elementi (aria acqua terra fuoco) per i tre principi alchemici (zolfo sale mercurio).
Innumerevoli sono le cose che si raggruppano in dodici: i mesi, le costellazioni dello zodiaco, i dodici apostoli, le dodici porte della Gerusalemme Celeste anche i cavalieri della tavola rotonda la nota saga celtica ecc.
Interessante é la corrispondenza dell’arco con i tarocchi: osserviamo attentamente la carta numero 21 che rappresenta il mondo; vediamo quattro figure ai lati, il solito leone, l’aquila, il bue, l’uomo.
Al centro una figura femminile che rappresenta l’anima mundi che corre o danza, questa corsa e questa danza generano il vortice che porta all’esistenza o alla distruzione gli esseri e i mondi.
Solitamente viene raffigurata con due candele in mano rigorosamente rosse segno del completamento dell’ “opera”. Intorno un cerchio che nelle versioni diverse rappresentano un serpente che si morde la coda (l’Uroboros simbolo dell’infinito), una corona di foglie d’alloro intrecciata con o senza quattro rose agli angoli (simbolo del divino e dell’amore disinteressato) oppure, in altre versioni, una specie di collana composta da dodici perle o medaglioni che, alternativamente, raffigurano segni zodiacali o quant’altro, oppure, in qualche altra versione semplicemente un cerchio, simbolo dell’infinito ma anche alchimisticamente dell’allume, il sale che genera tutti gli altri sali. Tutto questo rappresenta la medesima cosa, la totalità.
Andando avanti troviamo cinque oggetti solidi, questi sono i solidi platonici così chiamati perché usati nel Timeo di Platone per spiegare la struttura dell’universo. Platone usa ll tetraedro per simboleggiare il fuoco, ottaedro per simboleggiare l’aria, il cubo per simboleggiare la terra, l’icosaedro per simboleggiare l’acqua e il dodecaedro per simboleggiare la quintessenza, il quinto elemento, lo spirito universale, l’infinito, l’universo. Ricordiamo che il dodecaedro, come dice il nome, ha dodici facce.
Continuiamo il nostro percorso che notiamo essere concentrico e possiamo vedere una squadra ed un compasso che simboleggiano il lavoro percorso nei primi tre gradi, poi una spada e una cazzuola che ci ricordano che coloro che ricostruivano il tempio, dovevano essere sempre pronti a prendere la spada per difendersi dagli attacchi esterni dei nemici.
La spada é anche un simbolo più elevato. L’Apocalisse profetizza di una spada che esce dalla bocca del “Verbo”, la spada é simbolo della guerra santa che é prima di tutto una guerra interiore é questo forse il significato della spada portata dal Cristo nel vangelo secondo Matteo (10,34) ma é anche simbolo di conoscenza pura come testimonia il “Vedanta”.
La cazzuola é un simbolo trinitario, ma anche un simbolo del fulmine per la sua forma e simbolo di forza creatrice tanto che, nel medioevo, il creatore era raffigurato con la cazzuola in mano. La cazzuola servendo a mescolare la calce, simbolicamente riunisce fonde e unifica. Alchimisticamente l’abbinamento dei due oggetti allude al solve e coagula. Altro oggetto é la corda dei soggiornanti: questa é la trasposizione della scala presente nella tavola del primo grado e si ricollega alla simbologia dell’ascensione; essa serve per scendere nella cripta ma soprattutto per salire, essa é la via sacra insita nella coscienza dell’uomo, che collega il suo spirito all’essenza divina.
Sul tappeto troviamo ora due libri della legge sacra uno chiuso e l’altro aperto:
simbolicamente il libro ora chiuso ora aperto rappresenta la “pietra” a seconda che sia stata lavorata o ancora grezza appena estratta dalla cava.
In alchimia il libro rappresenta sia l’opera che la materia prima, frequentemente viene raffigurato fasciato da sette sigilli che rappresentano le sette fasi dell’opera che permettono di aprirlo man mano che si procede.
Al centro un altare, intorno all’altare noi troviamo i sei candelabri, in posizione di due triangoli disposti in forma concentrica; dal rituale sappiamo che quelle con il vertice verso l’alto sono le luci maggiori, le altre cioè il triangolo rivolto in basso é quello delle luci minori.
Le tre luci minori sono chiamate “la luce della legge e dei profeti” ognuna é indicata come se ciascuna luce avesse nome proprio. Rappresenta la conoscenza e comprensione della ‘Legge’ e dei ‘Profeti’.
Il simbolismo delle luci minori ha come partenza la Legge cioè i primi cinque Libri della Bibbia, la “Torah”, o Pentateuco, e come profeti Isaia, Geremia, Ezechiele. Il simbolo indica più ampiamente lo sviluppo armonico della creazione divina nel divenire, lo scorrere della sua volontà creativa a cui, uniformandosi e cooperando, induciamo uno sviluppo armonico del nostro essere ed il progresso mistico spirituale.
In questo c’é il vero significato della parola “Ascesi” che letteralmente significa salire che é come salire su una montagna in cui però l’ascensione é di natura spirituale é fa parte della conoscenza di se, e ciò che accade sulla montagna conduce alla conoscenza di Dio.
Le tre Luci maggiori, circoscrivono la Parola Sacra sull’altare, e vengono indicate con tre lettere dell’alfabeto ebraico che sono: Alef, Bet, lamed (la prima, la seconda e la dodicesima).
Molti autori indicano questo come riferimento alle parole del Salmo 119, verso 18, che dice: — Aprimi gli occhi perché io veda le meraviglie della tua legge — .
L’altare con le sue luci é il nocciolo del capitolo, esso é di pietra bianca perché simbolo di perfezione, ed é il simbolo del tempio che l’adepto doveva edificare per compiere l’opera, come ci raccontano Zosimo e Democrito che sono i maggiori rappresentanti dell’alchimia greco-alessandrina del primo e secondo secolo d.C.
L’altare é formato da un doppio cubo sovrapposto, che come ci ricorda Guénon riportava alla forma del tempio massonico, perché la Loggia propriamente detta è un quadrato lungo, in realtà un doppio quadrato, essendo la lunghezza (da oriente a occidente) doppia della larghezza (da nord a mezzogiorno).
I due triangoli il piccolo con il vertice in basso inscritto nel grande con il vertice in alto, ci riportano nuovamente al simbolismo della caverna che é anche accesso al monte degli adepti, da cui si accede all’asse del mondo, e al suo vertice.
Come nel paradiso di Dante, entriamo negli inferi e, alla fine del percorso, prima in discesa e poi in salita ci troviamo in paradiso al cospetto dell’Altissimo. Ma anche Enea, grazie alla Sibilla Cumana, entra nell’Ade e conclude il suo viaggio nei campi elisi.
Le luci delle candele sono la raffigurazione tridimensionale della stella fiammeggiante a sei punte. Il simbolo della stella di Davide fiammeggiante si presenta come un gradino successivo a quello del terzo grado. Siamo passati attraverso la porta della stella a cinque punte nel terzo grado e dobbiamo passare attraverso la porta dell’esalfa tridimensionale fiammeggiante nell’Arco Reale, oltre di ciò c’é solo il Grande Architetto.
In conclusione vogliamo per chiudere il cerchio, citare le prime parole della “Genesi”: << Bereshit barà Elohim et hashamajim wet aares>>.
La traduzione letterale è : << In principio (bereshit) creò (barà) Iddio (Elohim) i cieli (et hashamajim) e la terra (wet aares) >>.
Ora notiamo che “Elohim” corrisponderebbe al singolare “Dio” ma é in realtà un plurale, il plurale di Elohè o semplicemente El e andrebbe tradotto con “Gli Dei”. dando quindi alla frase un soggetto sottinteso come fattore del tutto anche di Elohim. Questa immagine ci conduce al concetto di molteplice. Nel livello superiore di comprensione del capitolo non basta più un venerabile come vicario divino ma il peso del simbolo viene portato da una trinità umana.
I solidi Platonici
solidi platonici sono così chiamati perché descritti nel Timeo di Platone come le forme che simboleggiano i quattro elementi, che sono, secondo la tradizione antica, gli archetipi da cui origina tutto l’universo. Ogni materia è composta di parti variabili dei quattro elementi base, il quinto, la quintessenza, non viene descritta, ma solo accennata. Il dodecaedro che la rappresentava era segreto e chi ne parlava incautamente veniva severamente punito. Inoltre, sempre secondo Platone, l’intero universo aveva la forma di un dodecaedro.
Cubo-di-MetatronPer comprendere l’importanza agli occhi dei pitagorici e di Platone, di queste forme geometriche occorre ricordare: che per essi l’atomo (ossia la parte ultima indivisibile) non era come noi lo immaginiamo di forma pressappoco sferica, ma di forma triangolare come un piccolo tetraedro. Il triangolo è sul piano la superficie minima perché è il poligono avente il minimo numero di lati necessario e sufficiente a delimitare una porzione di piano, il tetraedro o piramide triangolare è l’atomo solido perché è il poliedro avente il minimo numero di facce necessario e sufficiente a delimitare una porzione di spazio.
Per definizione, ogni numero poligonale è sempre la somma, di triangoli e ogni numero piramidale è somma di numeri tetraedrici. Per cui si è constatato che anche le cinque figure cosmiche ed in particolare il dodecaedro, simbolo dell’universo erano composti di tetraedri. L’intero universo si riduceva quindi ad una somma di atomi tetraedrici.
La fisica moderna sta dando ragione a Pitagora perché dopo aver frazionato l’atomo “scientista” ed aver visto che in realtà, neutroni e protoni erano fatti di particelle più piccole: Quark, Gluoni, ed altro, ha poi verificato che questi sono composti da corpuscoli ancora più minuscoli, tutt’altro che sferici e fatti come stringhe di energia che si scambiano cariche su schemi geometrici, come fossero cristalli.
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La cosa è confermata da quanto dicono Alcinoo e Plutarco. Il primo, dopo avere spiegato la natura dei primi quattro poliedri, dice che il quinto ha dodici facce, come lo zodiaco ha dodici segni, ed aggiunge che ogni faccia è composta di cinque triangoli (Col centro della faccia per vertice comune) di cui ciascuno è composto di altri sei (determinati da un diametro e da due lati del pentalfa). In totale 360 triangoli.
Plutarco a sua volta, dopo avere constatato che ognuna delle dodici facce pentagonali del dodecaedro consta di trenta triangoli rettangoli scaleni aggiunge che questo indica che il dodecaedro rappresenta tanto lo zodiaco che l’anno, perché si suddivide nel medesimo numero di parti.
Plutarco allude manifestamente all’anno egizio composto di 12 mesi ciascuno di trenta giorni, e che contava anche cinque giorni detti epagomeni che erano giorni di passaggio e che non erano considerati parte dell’anno, giorni in cui era vietato di compiere qualsiasi attività ed era vietato officiare riti religiosi.
Il numero dodici è il numero delle facce del dodecaedro e conseguentemente è il numero dei vertici del poliedro polare ossia dell’icosaedro. Dodici è anche il numero degli spigoli del cubo e del suo poliedro polare ossia l’ottaedro. Se consideriamo il numero dodici come costituito dai dodici vertici di un dodecaedro e ne sviluppiamo questo numero dodecaedrico entro uno degli angoli, prendendone il vertice come centro di omotetia si ottengono nel solito modo pitagorico i successivi numeri dodecaedrici. Le formule dei numeri poliedrici regolari (ad eccezione del numero tetraedrico) sono state, determinate la prima volta da Cartesio e si trovano in un suo manoscritto rimasto inedito per oltre un secolo.
Il numero dodici per conto suo ha già tradizionalmente un Carattere sacro ed universale, oltre ad essere il numero dei mesi del l’anno e dei segni dello zodiaco, dodici era in Grecia, Etruria e Roma il numero dei partecipanti al consesso degli Dei. Dodici il numero dei componenti dei collegi sacerdotali nella Roma arcaica, dodici il numero delle verghe del fascio etrusco e romano. Inoltre molti dodecaedri celtici pervenutici attestano l’importanza che gli antichi annettevano a questo numero ed al dodecaedro. Fatti e ragioni che avvalorano la scelta del dodecaedro come simbolo dell’universo.
Il dodecaedro è inscritto nella sfera, così come nella cosmologia pitagorica, il cosmo è avvolto dalla fascia, il “Perièkon”. Come il cosmo contiene in sè e consta dei quattro elementi fuoco, aria, terra, acqua, così i quattro poliedri regolari che ne sono il simbolo si possono inscrivere entro il dodecaedro. Si può infatti mostrare come si possa inscrivere l’esaedro o cubo nella sfera e nel dodecaedro; si può mostrare facilmente come l’icosaedro avente per vertici i centri delle dodici facce del dodecaedro sia un icosaedro regolare inscritto; ed analogamente per l’ottaedro avente per vertici i centri delle sei facce di un cubo, ed in fine come si ottenga dal cubo un tetraedro.
La Parola Ritrovata
Nel terzo grado della tradizione muratoria viene vissuto il dramma della irrimediabile perdita dei segreti connessi alla costruzione sacra. Segreti che sono da una parte costruttivi ma dall’altra sono iniziatici e interiori.
Nel grado dell’Arco Reale di Gerusalemme tutto gira intorno al concetto del ritrovamento di quei segreti, di quella iniziazione o quelle iniziazioni perdute.
Il mito della parola perduta nasce dalla tradizione rosacruciana, secondo cui ogni maestro rosacroce doveva scegliere un discepolo da istruire, a cui in punto di morte doveva sillabare all’orecchio le istruzioni conclusive della “Grande Opera”. Cosa avrebbe potuto sillabare all’orecchio del discepolo un anziano maestro in punto di morte non lo sappiamo, ma nel rispetto di questa tradizione ancora oggi gli apprendisti in primo grado ricevono e danno comunicazioni sillabando all’orecchio.
Nella elaborazione del grado, per creare una struttura allegorica in grado di trasmettere l’insegnamento iniziatico tra le pieghe di un rituale, gli antichi estensori si sono serviti di una tradizione molto diffusa nelle culture antiche, quello del ritrovamento della cripta, all’interno della quale si trova il segreto perduto.
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profeta e che vengono considerate un prototipo della tradizione Muratoria e dell’Arco Reale. Si racconta che in una visione, l’Altissimo abbia mostrato a Enoch nove soffitti a volta. Con l’aiuto di suo figlio Matusalemme, Enoch si é dedicato ad erigere, nel cuore della montagna di Caana, un santuario segreto di cui aveva veduto il progetto, con le volte una al di sotto dell’altra. Nella nona, la più bassa, Enoch collocò un triangolo di oro puro, sul quale aveva inciso ciò che presumibilmente era il cuore, l’essenza e il centro della Tradizione Sacra, il Vero Nome di Dio. Enoch era il nonno di Noé e aveva
fatto quest’opera perché aveva avuto una visione dove la terra sarebbe stata spazzata via da un grande cataclisma.
La versione cristiana è scritta in greco risale al quarto secolo. La scrive Filostorgio, storico cristiano seguace di Ario nella sua “Storia Ecclesiastica”:
“Quando Giuliano l’Apostata, ordinò di ricostruire la città di Gerusalemme, durante la preparazione delle fondamenta, una delle pietre che era stata posta nella parte più bassa della base uscì improvvisamente dal suo posto e aprì l’entrata di una caverna scavata nella roccia. A causa della profondità era difficile vedere cosa vi fosse dentro questa caverna; così alcuni essendo ansiosi di scoprire la verità calarono giù con una fune uno dei loro operai. Questi una volta sceso trovò acqua stagnante fino all’altezza delle ginocchia e constatò che la grotta era un quadrato perfetto. al centro una colonna e su di essa vi era un libro avvolto in un telo di lino. Lo prese e fece un segnale ai suoi compagni perché lo tirassero sù. Tornato alla luce mostrò loro il trofeo ed essi rimasero molto sorpresi, perché aveva un buon aspetto ed era in perfetto stato di conservazione, nonostante il luogo dove era stato trovato. Questo libro, che appariva un potente prodigio sia agli occhi dei pagani che degli ebrei, appena aperto mostrò le seguenti parole, scritte a grandi lettere: All’inizio era il Verbo, il Verbo era con Dio, il Verbo era Dio”. Infatti il volume era il Vangelo di Giovanni.
Questi tre racconti hanno ognuno qualcosa del rituale dell’Arco Reale di Gerusalemme ma come sempre in massoneria l’insegnamento è velato di allegorie. Quello che viene indicato è l’inizio di un viaggio interiore, che come quello di Dante, ma prima di lui di Virgilio, ci porterà ad entrare nella nostra interiorità più profonda, a entrare negli inferi e ad arrivare alla fine al paradiso per ritrovare quello che si era perso e poter reintegrare e ricostruire il nostro essere con quelle parti che sono andate perdute.
Altare Arco Reale
L’altare nell’Arco Reale di Gerusalemme è molto particolare innanzi tutto notiamo che è posto al centro di due triangoli sovrapposti, formati con sei candelabri disposti come la stella di Salomone. L’altare con le sue luci è il nucleo del capitolo, esso è di pietra bianca perché simbolo di perfezione, e del Tempio che l’Adepto doveva edificare per compiere l’opera, come ci raccontano Zosimo e Democrito che sono i maggiori rappresentanti dell’alchimia greco-alessandrina del primo e secondo secolo d.C..
L’altare è formato da un doppio cubo sovrapposto, che come ci ricorda Renè Guénon riportava alla forma del tempio massonico, perché la Loggia propriamente detta è un quadrato lungo, in realtà un doppio quadrato, essendo la lunghezza (da oriente a occidente) doppia della larghezza (da nord a mezzogiorno).
I due triangoli, il piccolo con il vertice in basso inscritto nel grande con il vertice in alto, ci riportano nuovamente al simbolismo della caverna che è anche accesso all’ermetico monte degli adepti, da cui si accede all’asse del mondo, e al suo vertice. Come nel paradiso di Dante, entriamo negli inferi e, alla fine del percorso, prima in discesa e poi in salita ci troviamo in paradiso al cospetto dell’Altissimo. Ma anche Enea, grazie alla Sibilla Cumana, entra nell’Ade per poi concludere il suo viaggio nei campi elisi.
Le luci delle candele sono la raffigurazione tridimensionale della stella fiammeggiante a sei punte. Il simbolo della stella di Davide fiammeggiante si presenta come un gradino successivo a quello del terzo grado. Siamo passati attraverso la porta della stella a cinque punte nel terzo grado e dobbiamo passare attraverso la porta dell’esalfa tridimensionale, fiammeggiante, nell’Arco Reale. Oltre cui c’è solo il Grande Architetto.
Gioiello Arco Reale
Tra i gioielli quello dell’Arco Reale è considerato, per fondati motivi e per la ricca simbologia, il più importante. Esso è parte essenziale dell’abbigliamento di un Compagno dell’A.R. Viene portato sul lato sinistro del petto e avrà un nastrino tricolore (blu, celeste e cremisi) per gli appartenenti al Gran capitolo ed ai Capitoli Provinciali, cremisi per i Compagni installati Principali e bianco per gli altri Compagni.
Il gioiello è costituito da due triangoli intrecciati, chiara metafora della duplice natura della Muratoria e dei suoi insegnamenti, nonché della natura spirituale e materiale dell’uomo.
Ciò è esemplificato nella cerimonia di apertura e di chiusura del Capitolo, quando i Principali si dispongono a guisa di un triangolo, mentre con le mani formano due triangoli, così facendo essi riuniscono il mondo spirituale con il mondo materiale.
La Muratoria dell’Arco Reale è essenzialmente cristiana e spirituale sia nei contenuti che nei rituali. I due triangoli erano un emblema adottato anche dagli antichi cristiani per significare la duplice natura dell’Uno, uomo e Dio. Il tre è un numero ricorrente nell’A.R.
Nel capitolo vi sono 3 Principali, 3 Soggiornanti, 3 sono le sillabe della Parola, e 3 sono le grandi Luci e 3 le piccole.
Al centro dei due triangoli intrecciati e quindi del Gioiello, è posto un sole. Ma questo sole, inscritto in un triangolo, non è il medesimo sole della Muratoria, descritto come un luminare della natura. Esso è, invece, il simbolo della Divinità.
I triangoli ed il sole sono circoscritti in due cerchi concentrici: il cerchio interno è emblema delle Divinità e della Sua Onnipresenza, mentre quello esterno della Eternità.
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In esso è posta una triplice Tau che, come recita la Lettura Mistica, allude alla Divinità.
La triplice tau è sempre stata l’emblema dell’A.R. ed è presente sul Gioiello, sulla fascia e sul grembiule dei Compagni, cioè tre volte tre.
La triplice tau dell’A.R. è il completamento del viaggio spirituale del Candidato nella Muratoria e dei tre passi regolari.
Sul Grembiule del Maestro Venerabile installato ci sono tre tau separate; la loro unione avverrà nell’A.R. e ciò lo condurrà alla Divinità.
Una interpretazione del 18° sec., considera la triplice tau come una T sovrapposta ad una H, facendo riferimento al Templum Hierosolymae, cioè al Tempio di Re Salomone.
Intorno al cerchio, contenente la triplice tau, vi è un cartiglio e sul suo retro, si trova fa scritta “Esaltato” ed accanto due spazi liberi dove viene inciso il nome ed il numero del Capitolo.
Una duplice triade in latino è inscritta nei cerchi concentrici:
“Deo, Regi, Fratibus, Honor, Fidelitas, Benevolentia” e si legge:
“Deo Honor”, “Onore a Dio”;
“Fratibus Benevolentia”, “Amore per i Fratelli”. L’iscrizione è una traduzione in Latino di un verso del Poema Regio, opera del XIV sec.
Sul retro dei triangoli intrecciati si trova un’altra triade doppia: “Concordia, Verità, Pace” sul primo “Saggezza, Potenza, Bellezza” sull’altro.
L’allusione non è alla Saggezza di re Salomone, né alla Potenza di Re Hiram re di Tiro, né alla bellezza di Hiram Habif, bensì alla Onniscenza, alla Onnipotenza ed alla Omnipresenza del V.V.I.A.
Questi attributi divini vengono sempre ricordati all’apertura e chiusura del Capitolo dell’A.R.
Sul cartiglio, intorno al circolo nel quale è inscritta la “Triplice Tau”, nella parte «verso», si legge “Nil nisi clavis deest”, “Nulla si trova senza la chiave”. Un simile concetto è espresso anche nella iscrizione tra i due cerchi concentrici: “Si talia jungere possis sit tibi SCIRE SATIS” “Se sei capace di congiungere queste cose, hai capito molto”.
Riesaminando i due triangoli intrecciati, dalla parte retro, troviamo un’altra doppia triade, ma quella del secondo triangolo è incompleta.
Sul triangolo con il vertice in alto, quello spirituale, si legge: “Abbiamo trovato”. La medesima frase è ripetuta sugli altri due lati in greco e latino. Sul triangolo con il vertice in basso, quello materiale, si trova uno spazio libero sulla base e sui lati la scritta: “Cultor Dei, Civis Mundi”.
Sul certificato del Gran Capitolo dell’A.R., come su quello della Gran Loggia e quindi sul gioiello dell’A.R. si trova uno spazio libero per scrivere il nome del Compagno.
Una volta inserito il nome la frase può essere letta così: «X.Y., Cultor Dei, Civis Mundi”. In italiano: “X.Y. è un adoratore di Dio, un cittadino del Mondo” ed associandola con quella del triangolo spirituale “ed egli ha trovato la chiave”.
Milleottocento anni or sono, Clemente d’Alessandria scriveva che “tutta la verità è velata nelle favole enigmatiche, nelle leggende e nelle allegorie”; la Muratoria è ricca di allegorie, ma la più importante è quella della ricerca della “Parola”.
Il Compagno che pensa di avere trovato la chiave nella scoperta del S. e M.N. e, deve riflettere e ricordare che non è sufficiente dire “Signore, Signore”, ma piuttosto “fare il Volere di Dio”. L’insegnamento della Muratoria è che la chiave di volta è celata sotto il materiale di scarto.
Nel Vangelo di Giovanni Cap. I si legge: “Nel principio era la Parola”.
Questa è la chiave dell’allegoria ed il Compagno che ha compreso la parola è degno di avere il proprio nome inciso sul Gioiello.
“Se tu capisci ciò, sai molto”, perché la Parola, il Volere di Dio, contiene tutti i precetti, gli insegnamenti, i principi della Muratoria.
Felice il Muratore che ha trovato la Parola e cerca di comprendere pienamente il significato, che ha trovato la pietra di volta e cerca di usarla nella costruzione del suo Tempio.
La Muratoria è una antica corporazione, ma all’inizio “vi era la Parola di Dio” e in “essa vi è la Potenza”.
I tarocchi
Come abbiamo già avuto occasione di affermare la simbologia e le tradizioni rosicruciane si sono diffuse in maniera quasi ubiquitaria nella cultura esoterica occidentale, già dal quattrocento ma sempre con maggior forza dal seicento in poi. In particolare la tradizione dell’Arco reale inglese che è la più rosicruciana ha permeato molti ambiti culturali.
Interessante è la corrispondenza dell’Arco con le lame dei Tarocchi. Se osserviamo attentamente la carta numero 21 che rappresenta il Mondo; vediamo quattro figure ai lati a noi già note: il leone, l’aquila, il bue, e la figura umana. Al centro una figura femminile che rappresenta l’”Anima Mundi” che corre o danza, questa corsa e questa danza generano il vortice che porta gli esseri e i mondi all’esistenza o alla distruzione. Solitamente viene raffigurata con due candele in mano rigorosamente rosse, segno del completamento dell’ ”Opera”. Intorno, un cerchio che, nelle diverse versioni rappresenta un serpente che si morde la coda (l’Uroboros simbolo dell’infinito), una corona di foglie d’alloro intrecciata con o senza quattro rose agli angoli (simbolo del divino e dell’amore disinteressato) oppure, una specie di collana composta da dodici perle o medaglioni che, alternativamente, raffigurano segni zodiacali o più semplicemente un cerchio, simbolo dell’infinito ma anche alchimisticamente dell’allume, il sale che genera tutti gli altri sali. Tutto questo rappresenta il medesimo concetto: la totalità.
Per fare un paragone orientale la figura del “Mondo” ricorda molto una figura vedica. Si tratta di Nataraja il divino danzatore. Questa immagina raffigura un aspetto del dio Shiva, che danza all’interno di un cerchio di fuoco, e col movimento crea dei nuovi mondi mentre ne distrugge altri.
La fisica moderna ha assimilato la danza di Nataraja con la danza delle particelle subatomiche che creano la materia dell’Universo.
San Paolo e ...
Abbiamo fino ad adesso descritto le varie tradizioni vogliamo porre l’accento su di un particolare importante. Fin dai tempi antichi le tradizioni iniziatiche si trasfondono le une nelle altre.
Non è un caso che ad esempio che la Bibbia come noi la conosciamo sia stata scritta in lingua babilonese, in origine la bibbia ebraica il “pentateuco”, cioè i primi cinque libri, era trasmessa oralmente in Aramaico ma durante la prigionia a Babilonia, il profeta Ezechiele decise che era arrivato il momento di mettere nero su bianco, perché esisteva il rischio che gli ebrei perdessero la loro identità culturale; e questo venne fatto nella lingua parlata dal popolo in quel momento un misto di lingua babilonese con elementi ebraici. La stessa lingua è usata per il “Talmud” che è la raccolta dei precetti e dei commentari biblici.
Possiamo definire questa lingua uno “yiddish” come si sarebbe detto in seguito, prendendo a prestito il termine indicato per la lingua parlata dagli ebrei dell’Europa orientale, gli aschenaziti, che è un misto di tedesco ed ebraico. Non bisogna pensare che si tratti Perù di una sorta di dialetto essa ha invece dignità di una lingua. Esiste una ampia letteratura anche contemporanea ed è una lingua parlata dagli ebrei di New York ed è molto usata in Israele.
Detto questo dobbiamo ricordare che anche uno dei pilastri del cristianesimo, l’apostolo Paolo ha operato un sincretismo di questo genere perché se andiamo a leggere le epistole vediamo che quello che a prima vista può sembrare greco, in effetti, proprio greco non è, Paolo appartiene a una comunità ebraica della diaspora che pensa e parla in greco (in giudeo-greco) esattamente come i sefarditi parleranno in ladino (o giudeo-spagnolo) e gli aschenaziti in yiddish. Una comunità che legge e cita la Bibbia nella traduzione in greco, come fa Paolo ogni volta che ne ha bisogno. Le ragioni per cui Paolo ne facesse parte, è rimasta singolarmente in ombra nella storia del giudaismo. La comunità cui Paolo apparteneva, ha prodotto non solo Filone e Giuseppe Flavio, ma molti altri. Essa era imbevuta di cultura greca e leggeva la Bibbia nella lingua di Aristotele e di Platone. La versione in greco della Bibbia è detta la “Bibbia dei settanta”.
Leggi di piùaltra cosa che una lingua grammaticale: lingua minore, gergo (come Kafka chiamava lo yiddish) o lingua poetica, come nei canti ebreo-andalusi di Yehudah ha-Levi e Mosheh ibn Ezra ritrovate nelle sinagoghe del Cairo, in ogni caso, Perù, lingua materna, anche se, l’ebreo come vita linguistica si sente sempre in terra straniera e consapevole che la sua vera patria linguistica è altrove, nell’ambito linguistico della lingua santa, inaccessibile al discorso quotidiano.La lingua “ieratica” è una lingua importante ma che si piega con difficoltà alle espressioni della vita quotidiana, non può essere usata ad esempio tra madre e figlio, negli affari e negli affetti. Fatalmente anche volendo conservare un propria identità proprio per ragioni di quotidianità la lingua si stempera nel parlare comune in una sorta di sincretismo linguistico. Si tratta Perù di molto più del problema linguistico, Mosè ad esempio era egiziano (se non lo vogliamo considerare un personaggio storico anche come archetipo va benissimo) e come tale ha acquisito la cultura egizia integrando la religione dei padri, in Mesopotamia ha acquisito la mistica del fuoco sacro della gerarchia celeste e degli innumerevoli nomi divini. Se vogliamo cogliere lo spirito della religione egizia il suo misticismo dobbiamo trascurare i geroglifici e studiare la Kabala ebraica perché parte della cultura si è trasfusa nell’ebraismo, lingua viva e continuità iniziatica. Un altro pezzo ci arriva dal sincretismo greco-gnostico. I Tolomei governano l’Egitto dopo la conquista di Alessandro Magno si integrano nella cultura acquisiscono i segreti dei templi e li trasmettono ai discendenti. Cleopatra ad esempio era della dinastia dei Tolomei, I detti dei padri del deserto scritti da asceti cristiani tra il 150 ed il 400 d.C.sono molto più egizi di quanto non sembri a prima vista.E’ in questa prospettiva che occorre guardare alla lingua di Paolo e di quella comunità giudeogreca, che costituisce, nella diaspora ebraica, un capitolo altrettanto importante della cultura sefardita fino al XVIII secolo e di quella aschenazita nel XIX e XX secolo. Lo stile di Paolo, globalmente considerato, non è ellenico (Norden, 509) e, tuttavia, esso non ha nemmeno un colore propriamente semitico. né greco né ebraico né idioma profano, proprio questo rende la sua lingua così interessante. Questa lingua è la lingua del cristianesimo non solo di quello delle origini ma anche di quello successivo. Il cristianesimo conserverà la sua connotazione aristotelica fino all’arrivo di un altro sincretismo quello islamico il quale acquisisce via via la cultura yemenita e sabea, cultura Sufi dai persiani la cultura cristiano copta che già era stata acquisita dal cristianesimo, e la cultura indiana che la influenzerà prepotentemente, tanto che, ancora oggi ad esempio noi chiamiamo numeri arabi quelli che in realtà sono indiani. L’influenza araba ci arriverà attraverso la Spagna e sarà molto forte nel rinascimento.Tutta questa digressione ha lo scopo di segnalare come la ricerca dei soggiornanti alluda alla eterna ricerca dell’uomo. Nella tradizione dell’arco reale ritroviamo una tradizione perduta questa tradizione persa più volte nel corso della storia dell’umanità rimane nel nostro inconscio collettivo.Lo schema è sempre lo stesso, sullo scacchiere della totalità diviso in dodici settori ai quattro angoli del mondo materiale noi iniziamo il nostro viaggio interiore che dovrebbe essere un pellegrinaggio alla ricerca di un tesoro incomparabile ed invece fin dal primo momento si rivela un viaggio interiore che porta alla nostra trasformazione interiore. lungo un percorso composto da prove iniziatiche oggetti simbolici che si ricollegano a componenti interiori fino alla scalata di una montagna sacra con la prova finale, che ci introduce nel giardino dell’eden, nel tempo e col variare delle culture, i dodici simboli della totalità diventano il consesso dei dodici dei greci o la ruota dello zodiaco dei mesopotamici ed la divinità che perpetua la creazione che corre facendo girare il cielo e le sue costellazioni attorno alla stella polare come fa lo scoiattolo con la sua ruota, poi nel tempo diventano le dodici tribù d’Israele ed in seguito i dodici apostoli, la montagna sacra diventerà il candido altare al centro del tempio, alla sommità del quale cerchi triangoli e nomi ineffabili dovranno provocare quella illuminazione sulla via di Damasco che è lo scopo delle nostre fatiche. Parte degli eventi umani che stiamo trattando restano indimenticabili. Ci riferiamo a tutto ciò che, nella vita collettiva come in quella individuale, viene in ogni istante dimenticato, alla sterminata massa di ciò che va in esse perduto.Malgrado la fatica degli storici, degli scribi e degli archivisti. Ciò che va perduto è infinitamente più grande di ciò che può essere raccolto negli archivi della memoria. Ma questo caos informe del dimenticato non è inerte né inefficace al contrario, esso agisce in noi con non meno forza della massa dei ricordi coscienti, anche se in modo diverso. Vi sono una forza e un’operazione del dimenticato, che non possono essere misurate in termini di memoria cosciente né accumulate come sapere, ma la cui insistenza determina il rango di ogni sapere e di ogni conoscenza. Ciò che il perduto esige, non è di essere ricordato, ma di restare in noi e con noi in quanto dimenticato, in quanto perduto – e unicamente per questo, indimenticabile.Di qui l’insufficienza di ogni relazione al dimenticato che cerchi semplicemente di restituirlo alla memoria, di iscriverlo negli archivi e nei monumenti della storia, o, al limite, di costruire per esso un’altra tradizione e un’altra storia. Occorre ricordare che la tradizione dell’indimenticabile è piuttosto, ciò che contrassegna ogni tradizione con un marchio di qualità. Ciò che rende storica ogni storia e tramandabile ogni tradizione è appunto il nucleo indimenticabile che essa porta dentro di se. L’alternativa qui non è fra dimenticare e ricordare, essere inconsapevole e prendere coscienza: decisiva è soltanto la capacità di rimanere fedeli a ciò che – pur incessantemente dimenticato deve restare indimenticabile, esige di rimanere in qualche modo con noi, di essere ancora per noi, in qualche modo possibile.I soggiornanti sono qualcosa di più di una leggenda, sono il proiettarsi dell’essenza dell’umanità. le culture si avvicendano le une alle altre sul palcoscenico della storia, col tempo non saranno che polvere, ma ci sarà sempre qualcuno che cercherà di ritrovare il tesoro perduto, finché resterà tempo.